Ricordo di Gide
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 238, p. 3
Data: 6 ottobre 1957
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La mia prima immagine di Gide è quasi ferina. Lo rivedo a una tavola della Buca del Lapi, la taverna sotterranea del Palazzo Antinori, mentre sta mangiando un quarto di cappone lesso con un contorno di tortellini al burro. Era, mi disse, la sua pietanza favorita e non mangiava che quella e qualche frutto.
Fu Giuseppe Vannicola, violinista e scrittore romano, che mi fece conoscere André Gide ai tempi del Leonardo, nel 1907. Gide, che aveva cari gli eccentrici d'ogni paese, voleva bene a Vannicola benchè questi, con la sua giovialità di signore raffinato ma popolaresco, fosse tutto l'opposto di lui. Nel suo Journal, all'anno 1912, Gide scrive: «Ce matin une charmante lettre de Papini me peignant Vannicola pauvre et malade, et dejà je cinglais vers Florence».
A dir vero Gide aveva tutt'altro che l'aspetto di un uomo di cuore. Distante. piuttosto, e distratto; nonchalant e meditabondo; non decifrabile alla prima lettura. Un'ombra di sorriso tra ironico ed estatico era sempre sulle sue labbra sensuali. Si sentiva che di continuo sorvegliava e pensava, ma si sarebbe detto che sorvegliasse le sue parole, che pensasse soprattutto a sè stesso. Aveva una cortesia delicata e un po' sorniona, che allontanava le confidenze più che sollecitarle. Non parlava quasi mai di sè e pochissimo di letteratura: più spesso delle opere d'arte che gli piacevano e dei paesi che aveva visitato. Aveva bellissimi occhi, ma volentieri sfuggenti, come se non gli piacesse troppo di farsi leggere l'anima. In tutto l'insieme un non so che di misterioso, di enigmatico, e diciamo pure di sournois. Ma si stava volentieri insieme a lui, perchè dai suoi discorsi, anche se laconici, trapelava un'intelligenza di alta qualità, una di quelle intelligenze dove sensazioni, sentimenti e ricordi sono armonicamente combinati e distillati, e la cultura non li mortifica ma li fa più individuali e aleggianti. Aveva, insomma, un suo charme, ritrovabile anche nei libri, ma più sottilmente umano nella conversazione.
Veniva spesso, in quegli anni, in Italia e parecchie volte ci siamo trovati insieme, ai caffè o per le strade. Una volta, a mezzogiorno, traversavo il giardin d'Azeglio e vidi, seduto sopra una panchina verde, André Gide che s'intratteneva con dei giovinetti: forse studenti che a quell'ora uscivano dal liceo di via della Colonna. Mi fece un po' meraviglia quella compagnia e non volli avvicinarlo, come avrei fatto se fosse stato solo. Non avevo nessuna idea, a quel tempo, delle inclinazioni di Gide e ingenuamente pensai che s'intrattenesse con quei ragazzi per far pratica di buon idioma toscano. Soltanto molti anni dopo, quando lessi Corydon e Si le grain ne meurt, capii perchè stava quel giorno in quel giardino a parlottare cogli adolescenti.
Gide, quand'era con noi, sembrava un cerebrale puro, che si curasse soltanto delle cose dello spirito. Curava, però, la sua persona ed era vestito sempre con una eleganza tutta sua, non francese, non borghese, non bohème, ma signorile e negletta insieme, come quella di un aristocratico artista che però non vuol sembrare nè aristocratico nè artista. I suoi abiti eran di solide e sobrie stoffe inglesi; portava in capo un feltro molle, un po' sformato per meglio concordare con la sua fisonomia di civilissimo primitivo. C'era qualcosa, nel suo viso e nei suoi movimenti, dell'animale, non già del bruto feroce e vorace, ma dell'animale di lusso, sensuale e guardingo, che ha conservato dei segreti contatti, più dell'uomo comune, con l'antica natura.
Ebbi l'intuizione, parlando con lui, ch'egli fosse un antico fauno domato — fino a un certo punto — da un addomesticamento protestante, cioè puritano, e ch'egli soffrisse di quella dualità interiore e cercasse di superarla col duplice nomadismo dei viaggi e delle esperienze intellettuali. Figlio di padre ugonotto e professore, di madre ricca e filistea, aveva sofferto il peso della educazione protestante, della schiavitù familiare, della ipocrisia borghese. Aveva sentito perciò prepotente il bisogno di liberarsi di quel peso, di rinnegare ogni tradizione, ogni limite, ogni principio, ogni fede. Era il pellegrino che per l'orrore della casa paterna non può sopportare nessuna casa e si trova a suo agio soltanto nelle camere provvisorie degli alberghi di lusso o delle locande malfamate. Aveva la diffidenza di ogni dottrina, la nausea di ogni certezza, la paura di ogni fede. Voleva assaggiare ogni bevanda e magari ubriacarsene, ma voleva cambiare ogni sera cantine e taverne. Aveva scoperto Nietzsche ancora prima di aver letto Nietzsche, ma, nello stesso tempo, ammirava sinceramente il self control degli inglesi, così opposto all' esibizionismo romantico, e sentiva fortemente la nobile semplicità dei classici di Luigi XIV, ed era attirato da quel sublime filisteo — olimpico e demonico insieme — che fu Goethe.
Ne! gennaio del 1907, durante il primo soggiorno a Parigi. andai a trovare André Gide. Stava un po' fuori della città, a Villa Montmorency, Avcnuc des Sycomores, in una casa di onesta apparenza che sorgeva tra il verde. Era solo in casa, credo, o almeno io non vidi che lui. Le stanze eran quasi vuote, meno che il suo studio, dove però aveva pochi libri. Molti quadri, invece, e ne ricordo uno assai grande che rappresentava un gruppo di scrittori, tra i quali anche Gide.
Molto raramente riusciamo a conoscere la genuina impressione che facciamo sugli altri e siccome ho avuto questa rara fortuna trascrivo quel che Gide scrisse quel giorno nel suo Journal. «Visite de Giovanni Papini, directeur de la revue Leonardo. Plus jeune que je n'aurais cru, au visage expressif et presque beau. Un peu trop pétulant, mais pourtant moins que les autres Italiens que je connais. Trop complimenteur; mais semble tout de mème penser une partie de ce qu'il dit. Comme tous les Italiens que je connais, croit trop à son importance; tout au moins le montre trop; ou autrement que ne le ferait un Francais».
Questo giudizio è, nell'insieme, assai benevolo ma conferma, purtroppo, l'incomunicabilità degli spiriti. Io avevo letto da poco Les Nourritures Terrestres e L'Immoraliste e siccome quei libri mi erano piaciuti moltissimo gli manifestai, con la mia giovanile schiettezza, la mia ammirazione. Ed ebbi, per ricompensa, l'epiteto di «complimenteur»! Avevo, a quel tempo, ventisei anni e già ero famoso e famigerato come «stroncatore». E non mi sarei mai aspettato che, per aver espresso con spontanea sincerità la mia ammirazione per uno scrittore al quale nulla chiedevo e dal quale nulla mi aspettavo, mi toccasse in cambio un aggettivo così poco adatto alla mia vera e profonda natura.
E' bensì vero che Gide ammette ch'io pensavo davvero «una parte» di quel che dicevo ed è, in bocca sua, un bell'elogio. Gide non leggerà, probabilmente, questi miei ricordi, ma voglio assicurarlo lo stesso ch'io pensavo tutto quel che dicevo e che, se nelle mie lodi v'era qualche esagerazione, e può darsi benissimo, essa era dovuta tutta al mio entusiasmo e non già al desiderio di fargli piacere. E lo stesso potrei dire circa «l'importanza» ch'io mi davo: non era certo sicumera a bello scopo ma, più semplicemente, la fede di un giovane che si credeva chiamato a far qualcosa nel mondo ed era tutto il contrario di un commediante che studia e calcola i suoi effetti.
Gide ha la reputazione, in gran parte meritata, di essere un eccellente psicologo e un esperto conoscitore di uomini eppure io so con certezza, dopo aver letto il suo Journal, che sul conto mio, quel giorno, commise almeno un paio di non lievi errori.
A parte ciò ricordo che la sua accoglienza, in quella fredda mattina di gennaio, fu quasi calda, tanto che mi regalò tre volumi suoi in edizione speciale. — Amyntas, Saul e l'Immoraliste — con dediche affettuose. E di lui ho parecchie lettere, scritte col suo minuto carattere su bella carta leggera, che testimoniano la simpatia ch'egli ebbe, anche dopo, per me.
Nel 1919 tradussi in italiano il suo Promethé malenchâiné ed egli ne fu contento. L'ho visto l'ultima volta nel 1922, dopo la Storia di Cristo. Mi scrisse ch'era di passaggio da Firenze per pochi giorni e che desiderava vedermi. Ci trovammo in un caffè di piazza Vittorio: mi parve invecchiato e un po' stanco. Si parlò a lungo del Cristianesimo. Egli affermava di aver sempre avuto un profondo amore per Cristo, ma si stupiva ch'io fossi entrato nella Chiesa Cattolica.
— Ho un quaderno, mi disse, dove noto via via, in due colonne, le contraddizioni tra l'Evangelo e il Cattolicismo. Perchè mai voi, che ammirate così giustamente l'Evangelo, siete caduto nell'errore di legarvi alla Chiesa Romana? Proprio chi sente e segue il messaggio di Cristo non può accettare la teologia e la pratica del Cattolicismo.
Cominciai a spiegargli, meglio che potevo, il vero senso di quelle contraddizioni, ma in quel momento entrò nel caffè un bel giovane (francese) ch'era, a quel che compresi, il compagno di viaggio di Gide. Il giovane mostrava di annoiarsi a quei discorsi di religione e mi parve che fosse impaziente di uscire col suo celebre amico. Il colloquio fu presto interrotto e Gide se n'andò dopo avermi promesso che ci saremmo riveduti per discutere ancora su quel tema così importante per lui e per me. Ma egli non s'è fatto mai più vivo con me e temo non mi sarà dato di rivederlo.
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